Migranti, Natale 1996 e “la storia minore” dei naufraghi di Portopalo

0
628
Relitto Portopalo

Mentre si festeggia il Natale al caldo dei focolari e degli abbracci dei cari, nessuno vorrebbe mai pensare che, proprio in queste ore nel 1996, si consumava un dramma nel Mediterraneo. La più grande tragedia consumatasi in quello specchio di acqua, dopo la Seconda guerra mondiale. Non più l’unica dal 2013, quando il 3 ottobre (dal 2015 giornata in memorie della Vittime dell’Immigrazione) naufragarono a largo di Lampedusa 386 migranti africani, e dal 2015 quando il 18 aprile si inabissò nel Canale di Sicilia un barcone con 700 persone a bordo.

Serve ricordare? Serve. Serve perché troppo a lungo si è dimenticato. E serve ricordare proprio adesso quella notte di Natale 1996 in cui, di fronte al comune di Portopalo di Capo Passero (sito più a Sud dell’Isola siciliana in provincia di Siracusa) il battello F174 affondava silenziosamente nella nostra storia, tra le urla innocenti di 283 persone provenienti dallo Sri Lanka, dall’India e dal Pakistan.

Quella pagina di storia fu raccontata poco e conosciuta soltanto qualche tempo dopo. Memorabile resta l’articolo che Dino Frisullo firmò sul Manifesto il 20 giugno 2001. “Loro malgrado, quei miseri naufraghi hanno scritto una pagina di storia. Storia minore, scomoda e rimossa.

Storia che rischia di scivolare via sull’onda dello scoop giornalistico, che rivestirà quei corpi di effimera carta nella doppia sepoltura del mare e del cinismo.

Vorrei raccontarla, quella storia, per chi non considera la memoria un lusso”.

Oggi restano tante domande ancora, e con esse la sola certezza che ciò che accadde allora, è accaduto ancora negli anni successivi e ancora accadrà; resta anche un relitto a 19 miglia dalla località siracusana, in fondo a quel mare che quella notte inghiottì esistenze, sogni, speranze. Intorno, tutto taceva tranne la tempesta.

Qualcuno li ha chiamati i clandestini della coscienza, altri fantasmi del Mediterraneo; al di là delle definizioni, sono state vite poi naufragate (e dimenticate) nelle acque tra l’isola di Malta e la Sicilia, vite spezzate dall’indifferenza di un’Europa più attenta ai conti e alle merci che alle persone.

Erano partiti dal porto di Alessandria d’Egitto in quasi 500 sull’imbarcazione Yohan. Al comando c’era il libanese Youssef El Hallal. Quella notte del 1996, durante il tragitto nel canale di Sicilia, nei pressi di Malta, in condizioni meteorologiche avverse, ai migranti fu imposto il trasbordo sulla ferry boat inglese F 174, imbarcazione più piccola e molto più precaria che di lì a breve avrebbe iniziato ad imbarcare anche acqua.  Il mare era molto agitato e c’era aria di tempesta. La nave inglese non resse il carico al punto che l’imbarcazione Yohan dovette tornare indietro a prestare soccorso ma la burrasca che intanto aveva iniziato ad imperversare causò uno scontro tra le due navi. Uno scontro che fu fatale per la F124. Per i quasi trecento migranti in stiva non vi fu più scampo. La F124 affondò e la Yohan si allontanò in fretta, con poche decine di superstiti ai quali venne imposto il silenzio sull’accaduto. Poche e superficiali notizie trapelarono nelle settimane successive e il 28 febbraio 1997, il sequestro lungo le coste calabresi della nave Yohan rappresentò un primo indizio concreto. Per anni non si credette alla “strage di Natale”, si parlò di naufragio fantasma fino a quando fu il mare a restituire la verità… 

Il mare e i pescatori di Capo Passero

Fu il mare a restituire ciò che la storia, in quella notte drammatica,  aveva inghiottito. Al largo di Capo Passero alcuni pescatori avevano, infatti, iniziato a rinvenire i cadaveri dei naufraghi nelle loro reti. Preoccupati delle conseguenze sulla loro attività, decisero di non denunciare l’accaduto e di rigettare in acqua quei corpi esanimi. Le voci circolavano in paese e tra queste una non restò sottotono. Era quella di Salvatore detto “Salvo” Lupo. Un giorno ritrovò un documento e da allora la sua vita non fu più la stessa. Il ritrovamento di quella carta di identità e il suo coraggio contribuirono a squarciare il mistero che per anni aveva avvolto la vicenda. La ricerca della verità, come sempre, iniziò con la ricerca di risposte. Quella carta di identità era del diciassettenne dello Sri Lanka, di nome Ampalagan Ganeshu. Chi era questo ragazzo? Perché quel documento era lì, in fondo al mare? Quale segreto nascondeva quella traccia di vita o forse di morte? Come avrebbe dovuto essere interpretato quel segno che rendeva, dopo tante mistificazioni e numerose omissioni, finalmente più concreta ed evidente una storia a lungo volontariamente ignorata? Fu allora che la determinazione di Salvo Lupo consentì di voltare pagina. Egli ha pagato un alto prezzo per la sua scelta di denunciare: oggi non è più pescatore, ha lasciato la Sicilia per fare il rimorchiatore tra la Toscana, la Tunisia e la Libia. 

“Io sono Salvatore Lupo e facevo il pescatore a Portopalo… da un po’ di anni ho smesso. Mi ricordo bene, dieci anni fa, quello che era successo: era la sera di Natale e c’era aria di tempesta e vento forte, e io e i miei uomini, quella notte, siamo andati al porto per rinforzare gli ormeggi delle barche e metterle in sicurezza. Poi, il 2 gennaio, per raccontare l’inizio della vicenda, quando siamo tornati in pesca dopo le vacanze di natale, si sono cominciate a pescare delle cose strane…”

Iniziava così il suo racconto. La sua testimonianza consentì la conoscenza e la memoria di fatti che, altrimenti, sarebbero rimasti sepolti negli abissi del mare, celati nelle pieghe dell’oblio e dell’indifferenza, nascosti dalla paura di chi aveva scelto di negare la realtà e di ributtare quei “tonni”e quei pezzi di relitti in mare. Lo stralcio sopra riportato è tratto dall’intervista rilasciata nel 2006 ad Alessandra Sciurba ed integralmente disponibile, nella versione audio, sul sito Melting Pot Europa (http://www.meltingpot.org/Intervista-con-Salvo-Lupo-il-pescatore-che-ha-fatto.html#.WkJ42FXibct).

Determinante fu il suo contatto con il giornalista di Repubblica Giovanni Maria Bellu che condusse un’inchiesta internazionale e, noleggiando un robot per la ricerca sottomarina, chiamato Rov (Remotely Operated Vehicle), nel 2001 individuò il relitto della F174. Quel naufragio adesso aveva una prova tangibile. Dal suo libro è stata tratta la miniserie televisiva, in onda su Rai Uno qualche anno fa, dal titolo “I fantasmi di Portopalo” con Beppe Fiorello nel ruolo del pescatore Saro Ferro (Salvo Lupo) e con Giuseppe Battiston nel ruolo del giornalista Giacomo Sanna (Giovanni Maria Bellu). Anche il Teatro della Cooperativa di Milano, con la regia di Renato Sarti, si occupò della Nave Fantasma. Pure Carlo Lucarelli lo fece nei suoi Misteri Italiani.

Quella che oggi si ricorda come la Strage di Natale, rimasta sconosciuta per lunghi anni, portò alla luce non solo il dramma della migrazione del nostro tempo ma anche i risvolti gravi della pratica del traffico di esseri umani, della abietta speculazione e del bieco sfruttamento della disperazione di intere comunità, dell’ignobile mercificazione del diritto delle persone ad una vita dignitosa anche se fuori dal proprio paese di origine.

Il recupero dei corpi

Dopo l’azione di Giovanni Maria Bellu, i quattro premi Nobel, Rita Levi Montalcini, Renato Dulbecco, Carlo Rubbia e Dario Fo lanciarono una petizione per il recupero dei corpi. Brandelli di verità strappati da un manto di indifferenza e deplorevole indolenza. Un naufragio di serie b non solo perché a morire erano stati cittadini stranieri e poveri ma anche perché quel relitto poneva alla coscienza domande che era più comodo ignorare. Il comandante libanese avrebbe dichiarato anni dopo di essere ripartito dal luogo dell’affondamento verso il Peloponneso a bordo della Yohan, con decine di immigrati sopravvissuti, e di avere ricevuto delle coperture per raggiungere la terraferma. Dopo oltre un decennio di silenzio e oblio, nel marzo del 2009 la Corte d’Assise di Appello di Catania condannò per omicidio volontario plurimo l’imputato, l’armatore pakistano maltese Sheik Thourab, a trenta anni di reclusione. La sentenza fu confermata dalla Cassazione alla fine del 2009. L’anno prima, nel 2008 era già stato condannato a trenta anni di carcere il capitano della nave, il libanese Youssef El Hallal.

Nonostante il relitto si trovasse al di fuori delle acque internazionali, la procura siracusana riuscì ad indagare e ad incardinare un processo perseguendo un crimine qualificato di eccezionale gravità. 

In entrambi i processi fu disposta anche una provvisionale di 20 mila euro per le famiglie di ciascuna vittima.

Ostinata fu la resistenza delle famiglie, guidate dall’anziano padre di una vittima, Zabiullah, che favorirono l’emersione di un meccanismo imprenditoriale criminale, di una catena del traffico di esseri umani con testa turca e armatori greci, con punti logistici in Egitto, Siria e Turchia, che dai villaggi del Kurdistan, del Pakistan e dell’India fino all’Italia “organizzava i viaggi”, approfittando della disperazione e della necessità di fuga dalla miseria di esseri umani in cerca di sopravvivenza e di diritti. Un dramma umano già annunciato ma ancora colpevolmente latente, silente, ignorato. 

 Tra le azioni di sensibilizzazione più recenti e significative legate a questa drammatica vicenda ricordiamo quella di Gaia Ferrara, appassionata di due ruote, fondatrice dell’associazione Viandando, nominata nel 2015 Cittadina Europea dalla vicepresidente del Parlamento Europeo, Sylvie Guillaume, per “il lavoro quotidiano di questa cittadina essenziale per la coesione sociale dei nostri Paesi“. Nel 2014 Gaia Ferrara percorse in sella alla sua bici 1200 kilometri per ricordare i migranti annegati la notte del Natale del 1996 al largo di Portopalo.

Sono, tuttavia, ancora pochi quelli che rivendicano il diritto alla verità per questa e per altre storie non solo italiane. Gli invisibili vivi e le vittime invisibili sono ancora troppi. Anche il porto di Reggio Calabria ha accolto salme di fratelli e sorelle, anche giovani, la cui vita è stata interrotta in mare. Quasi venticinque anni sono trascorsi da quella strage di Natale, eppure quel dolore infinito, con dirompenza disarmante, ancora interroga la coscienza pur restando spesso inascoltato.