Tiene le mani sul ventre gonfio, sguardo basso e scandisce le parole con calma: “il mio bambino nascerà a giugno, è un maschio ma prima del parto dovrò fare gli esami per la licenza media”. E.M. stretta nella sua camicia da notte, indossata appena rientrata a casa dopo le lezioni al Cpia “Stretto Ionio Tirreno”, racconta la sua nuova vita a Reggio Calabria, giunta dalla Nigeria, dopo aver attraversato il Mediterraneo.
Nella periferia sud della città questa giovane donna nigeriana condivide l’appartamento con altre ragazze ed i loro figli, tutte inserite nel progetto Incipit – INiziativa Calabra per l’Identificazione, Protezione ed Inclusione sociale delle vittime di Tratta – della Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento Pari Opportunità e dalla Regione Calabria, frutto di un lavoro di rete a cui contribuiscono soggetti pubblici e privati che da anni operano in questo ambito. A Reggio l’iniziativa è curata dall’associazione Piccola Opera Papa Giovanni Onlus, capofila regionale del progetto, e dall’associazione Papa Giovanni XXIII. Un progetto che ha come obiettivo, dunque, la protezione alle vittime di tratta e come specificità il sostegno alla maternità e alla genitorialità di queste giovani donne.
L’inferno che ha vissuto E. M. durante il lungo viaggio è storia comune con moltissime sue connazionali nigeriane. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha denunciato ripetutamente il fatto che queste donne nigeriane, già durante il viaggio, subiscono le peggiori violenze, vengono obbligate a prostituirsi e si ritrovano in una condizione di semi-schiavitù.
Il fenomeno del traffico delle nigeriane
Il fenomeno del traffico delle nigeriane si è strutturato nel corso di oltre trent’anni, ma negli ultimi tempi ha assunto caratteristiche nuove: dal 2014 al 2016, infatti, sono sbarcate in Italia circa 18 mila giovani nigeriane e moltissime minorenni. Partono giovanissime, le donne nigeriane, spesso con livelli di istruzione molto bassi. Partono a tutti i costi e finiscono quasi inevitabilmente nella rete dei trafficanti. Il nostro Paese si è trovato di fronte a una grande sfida: quella dell’emersione di queste vittime – del riconoscimento del fatto che fossero vittime di tratta – e della loro protezione. Esiste un piano nazionale anti tratta che prevede progetti articolati con partnership pubblico-privato in tutte le regioni italiane.
Qui in riva allo Stretto di Messina, ecco che queste donne ritornano alla vita e piano piano la tristezza e la paura svanisce dal loro sguardo. “Per ogni ragazza che viene accolta, – spiega Giulia Pensabene responsabile dell’equipe – stiliamo un progetto personale e sono seguite nel loro percorso di rinascita. Grazie ad Incipt l’ accoglienza (seconda accoglienza, semiautonomia) infatti è strutturata in relazione al bisogno di protezione delle vittime e alle diverse fasi del percorso di protezione ed è conseguente all’accettazione del programma da parte dell’interessato. Si lavora anche sul reinserimento socio-lavorativo che è favorito dall’empowerment delle persone accolte, dai percorsi di orientamento, formazione e inserimento. Le ragazze, infatti, oltre ad apprendere l’italiano, sono inserite in tirocini formativi”.
I laboratori per le donne nigeriane
Un lavoro di equipe, cui fanno parte Silvia Canale, Giovanna Iracà, Claudia Serranò e Marialuisa Dieni, per sostenere queste donne e favorire la loro integrazione in Italia.“Ogni giovedì – spiega la psicologa Giovanna Iracà – dedichiamo due ore per attività laboratoriali, è un momento di confronto aperto, oltre che di apprendimento, utile sia per noi che per loro. Emergono abilità personali e si favoriscono le relazioni. Abbiamo messo in campo laboratori di cucina ed impastato pizza e cudduraci (i dolci tipici della Pasqua n.d.r) e meat pie il tipico “calzone” al forno nigeriano con verdure e carne. Questo ci ha permesso di far arricchire il vocabolario ma anche di condividere il valore delle tradizioni. Un altro laboratorio molto apprezzato è stato quello dedicato alla cura del corpo che ci ha dato anche la possibilità di affrontare un tema delicato come il body shaming e il razzismo”.
“Le donne nigeriane – racconta l’educatrice Claudia Serranò – amano molto prendersi cura dei capelli ma usano le parrucche per praticità perché il ricco afro è difficile da trattare, così proprio su questo abbiamo messo a confronto gli usi e i costumi, spiegando loro che in Italia ormai le parrucche sono per lo più utilizzate da donne che hanno perso i capelli a causa di trattamenti chemioterapici”.
E. M. tocca le sua cuffia per capelli: “io li tengo corti perché è difficile ogni giorno lavarli e pettinarli quando sono lunghi, ma per uscire metto la parrucca. Amo molto i capelli e vorrei fare la parrucchiera. Ho già lavorato e so anche tagliere i capelli, spero di riuscire un giorno a realizzare il mio sogno”.